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Catalogna, Rajoy ha preferito la guerra sporca al dialogo politico

Il premier spagnolo è chiamato a risolvere una crisi che ha creato. E che il suo partito ha gestito con mezzi non sempre convenzionali: dal dossieraggio a una polizia parallela dentro al ministero dell'Interno.




LETTERA43
 
02-10-2017
 
GIOVANNA FAGGIONATO

 
Mariano Rajoy non mollerà nemmeno questa volta. A meno che non lo costringano a farlo i partiti di opposizione, questo testardo galiziano di provincia, alla guida del Partido Popular da 17 anni, al governo di Madrid da sette, tenterà ancora una volta di presentarsi come il bastione della nazione spagnola. Poco importa che il referendum del primo ottobre abbia mostrato il suo fallimento politico a livello internazionale con la stampa a testimoniare le violenze della Guardia Civil – «tristi, ma proporzionate» le ha definite, «siamo un esempio per il mondo» - su cittadini desiderosi solo di votare. Poco importa che la sua politica abbia creato indipendentisti dove non ce n’erano e abbia semplicemente impedito di capire cosa vogliono realmente i cittadini catalani: una mossa controproducente per tutti coloro che desiderano la Spagna unita.

IMPERMEABILE AGLI SCANDALI. Dopo aver guidato il Paese attraverso la crisi, da leader di un partito al centro della maggiore inchiesta di corruzione della storia nazionale e dopo aver accettato di governare di nuovo senza una maggioranza politica, si farà scivolare addosso anche la pessima gestione dell’autoproclamato referendum catalano, quello che, come ha spiegato alle 20 del primo ottobre, «non è mai esistito». Impermeabile a ogni scandalo, a ogni questione di opportunità, proverà, dopo essere sopravvissuto a incidenti stradali e aerei - il primo gli lasciò cicatrici sul volto, nel secondo si ruppe un dito -, a superare anche la crisi catalana. Una crisi che in questi anni però non ha fatto che alimentare con metodi legali e non, in una guerra sporca che è la cosa più lontana dal dialogo politico invocato in questi giorni.
 
Le tensioni odierne, ormai è noto, sono figlie in prima battuta del ricorso alla Corte costituzionale presentato del Partido popular contro il nuovo Statuto negoziato dal governo di Barcellona con l'esecutivo Zapatero, ratificato da un voto parlamentare e approvato attraverso un referendum della popolazione della Catalogna, seppure ancora una volta con un'affluenza minore della metà degli aventi diritto. Da lì in poi la questione catalana si è avvitata su se stessa in un crescendo di radicalizzazione. Ma intanto Rajoy è arrivato al governo e, mentre i giovani spagnoli passavano giorni e notti a Puerta del Sol a protestare contro una classe politica corrotta e contro un'austerity che colpiva gli ultimi, il Partido popular proseguiva la sua guerra con altri mezzi.

MEZZI NON CONVENZIONALI. Jorge Fernández Díaz, fedelissimo di Rajoy, cattolico numerario dell'Opus Dei ma anche catalano tendenzialmente moderato, da ministro degli Interni a partire dal 2012 e almeno fino al 2017 ha messo in piedi una sorta di di polizia parallela formata da alcuni ufficiali di polizia anche giudiziaria. Il gruppo ha condotto indagini per anni al di fuori dei meccanismi dello stato di diritto, coinvolgendo anche personale di agenzie investigative private. L'obiettivo era ottenere informazioni in merito alle indagini sul caso Gurtel: l'inchiesta che ha portato a scoprire i fondi neri del Partido popular coinvolgendone le prime file, Rajoy compreso, e da cui Calle Genova è riuscita ad uscire più o meno in piedi perchè il computer dove avrebbero dovuto esserci le prove dei finanziamenti rivelati dall'ex tesoriere Luis Barcenas era stato formattato. Ma, e forse è anche più grave, la polizia politica di Diaz si occupava soprattutto del dossieraggio dei nemici del centrodestra di governo e in particolare degli indipendentisti.
 
«NIXON S'È DIMESSO PER MOLTO MENO». «Per qualcosa di molto inferiore», ha scritto El Diario, «Nixon si è dimesso». La vicenda è stata prima raccontata sulla stampa e pochissimo al di fuori dei confini nazionali. Poi è diventata un documentario per mano di due giornalisti di Mediapro, la casa editrice del quotidiano online progressista Publico. Ma nel chiuso circuito mediatico spagnolo solo l'emittente catalana e quella basca hanno deciso di trasmetterlo. Ed è facile capirne il motivo.
 
Tra i politici finiti nel mirino della polizia di Diaz figurano il leader di Podemos Pablo Iglesias, Jordi Pujol, presidente del governo di Catalogna dal 1980 al 2003, e anche l'attuale vicepresidente della Generalitat, Oriol Junqueras, leader della formazione della sinistra indipendentista Esquerra Repubblicana: l'uomo che con l'ex presidente Artus Mas ha progettato il referendum del primo ottobre. Per trovare gli scheletri nascosti dei suoi nemici, il ministro degli Interni si appoggiava al capo dell'ufficio antifrode catalano, Daniel de Alfonso. Ma, secondo alcune conversazioni registrate tra i due, Diaz teneva informato anche Rajoy.

LA FABBRICAZIONE DI FALSI DOCUMENTI. Come succede spesso in questi casi, i dossier mescolavano verità - peraltro facili visto che la classe dirigente catalana è stata coinvolta in numerosi casi di corruzione - e bugie. In mancanza di documenti che provassero la corruzione degli oppositori, infatti, i poliziotti agli ordini del capo dell'Interno si sono spinti anche a fabbricarne di falsi. Da qui vengono le fatture fasulle venezuelane che per un po' hanno inquinato il dibattito sul leader di Podemos. E un altro falso documento è stato utilizzato contro l'ex leader catalano Pujol. L'uomo che ha guidato la regione per 30 anni, peraltro invocandone sempre l'autonomia, è tuttavia finito al centro di un'inchiesta per evasione fiscale e ha confessato di avere all'estero, nel principato di Andorra, milioni di euro sconosciuti al Fisco iberico. I bocconi avvelenati o semplicemente a orologeria sono stati preparati soprattutto in vista della consultazione catalana del 2014.

FONDI PUBBLICI PER INDAGINI FRAUDOLENTE. La presenza della polizia parallela è emersa solo nel 2016 e appena il 21 settembre 2017 la commissione di inchiesta parlamentare che se ne è occupata ha approvato con 172 voti a favore - quelli dei socialisti, di Podemos e degli indipendentisti - la sua relazione finale. Come riporta Publico, i deputati hanno certificato che il ministro degli Interni ha utilizzato fondi pubblici e funzionari statali per indagini fraudolente contro gli oppositori politici. Anche i membri di Ciudadanos, che pure si sono astenuti, ne hanno riconosciuto l'esistenza. Ben inteso, questo non toglie niente all'egoismo fiscale, all'integralismo e alla assenza di razionalità delle rivendicazioni indipendentiste. Ma spiega in parte come siamo arrivati fino a qui, e perché è difficile che Rajoy ne tiri la Spagna fuori. E non è una buona notizia.
 




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The POLITICO 50: Robert Kagan and Victoria Nuland

Editor's note: POLITICO Magazine released a list of the top 50 influential people in Washington, D.C., including Brookings Senior Fellow Robert Kagan and Assistant Secretary of State for European and Eurasian Affairs Victoria Nuland, described as "the ultimate American power couple."

Victoria Nuland and Robert Kagan fell in love “talking about democracy and the role of America in the world” on one of their first dates. It’s a shared passion that hasn’t faded over time.

It was just two years ago that President Obama was gushing to aides about an essay that Kagan, a historian and author, wrote about the myth of American decline—a theme Obama echoed in his State of the Union that January. This year, Kagan’s sprawling New Republic essay, “Superpowers Don’t Get to Retire,” insisted on America’s enduring responsibility to shape the world order—and issued a direct challenge to a president who has summarized his own foreign-policy doctrine with a minimalist “don’t-do-stupid-s—t” directive. Obama promptly invited Kagan in for a West Wing consult, but it was also clear that Kagan had helped rouse the president’s Republican critics, who have been increasingly adopting Kagan’s argument that just because it’s been a decade of wearying war in Iraq and Afghanistan doesn’t mean America can roll up its superpower carpet and stay home when new crises, from Iraq to Russia to Syria, beckon.

Nuland, overseeing European and Eurasian Affairs at the State Department, has been a strong advocate of the engaged approach her husband favors as a crisis with Russia has unfolded on her diplomatic turf this year. The point was made, rather sensationally, in February, when a leaked audio recording of her F-bomb-laden diatribe about the fecklessness of the European Union, which she accused of not exactly playing a constructive role trying to end the growing conflict in Ukraine, appeared on the Internet. Nuland, a career Foreign Service officer, has been an impassioned advocate for democracy-building in Eastern Europe, and while she got pushback from European counterparts over her “f—k the EU” comment, the United States has been leading the effort to impose sanctions on Russia since President Vladimir Putin seized Ukraine’s Crimean Peninsula and waged a proxy war in the country’s east—dragging a reluctant Europe along pretty much every step of the way.

Publication: POLITICO Magazine
     
 
 




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Nature in the built environment: global politico-economic, geo-ecologic and socio-historical perspectives / Ambe J. Njoh

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